Ius soli: perché (ogni tanto) si torna a parlarne

Di CLAUDIA SALERNO

Nella notte fra il 5 e il 6 ottobre il Consiglio dei Ministri ha approvato un decreto-legge dal titolo “Misure per la sicurezza delle città, l’immigrazione e la protezione internazionale”. Un insieme di misure volte a stemperare, parzialmente, le misure precedentemente vigenti in materia di immigrazione e sicurezza. Fra queste, anche il termine massimo per il riconoscimento della cittadinanza italiana, che era fissato a 48 mesi dal momento della presentazione della richiesta.


L’acquisizione della cittadinanza italiana è un argomento che appare e scompare dall’agenda politica. Ultimamente, alcune vicende hanno riportato a galla l’argomento (es. caso Suarez) senza approfondire, però, le ragioni di immobilismo legislativo che impediscono un vero aggiornamento della normativa.

Facciamo un piccolo passo indietro. Lo ius soli è il principio di trasmissione della cittadinanza, così come previsto per legge in nazioni tipo gli Stati Uniti o il Canada. In Italia, ai sensi della Legge 91 del 1992, vige il principio dello ius sanguinis che, in senso opposto, prevede la trasmissione della cittadinanza per via “ereditaria”, di madre (o padre) in figlio. Ne deriva che chi nasce in Italia non è sempre italiano. Non lo è, di certo, se non lo sono né la mamma, né il papà.

Sembra che in Italia si torni a discutere di ius soli ma solo come riconoscimento dell’attuale normativa, di fatto obsoleta e fra le più arretrate in Europa. Questo perché, contestualmente al mutamento sociale, anagrafico e antropologico della società italiana non si è affiancato un aggiornamento legislativo ed è qui che entra in gioco la politica. Il ventunesimo secolo è quello del ritorno dei sovranismi nazionali che si interpongono, inevitabilmente, fra il mutamento della società italiana, divenuta a tutti gli effetti multiculturale, e l’adeguamento della normativa.

Alcuni dati ISTAT ci aiutano a capire cosa produce, nella realtà, l’anacronistico principio dello ius sanguinis. Nel 2018 i bambini stranieri (quindi figli di cittadini di Paesi terzi) sono stati oltre 65 mila, ossia il 15% dei nati in Italia. Quindi, ad esempio, fra 10 anni un bambino su sei sarà “straniero”, pur condividendo coi suoi coetanei lingua, cultura, educazione, interessi, dieta, luoghi di aggregazione, ecc… È evidente, allora, che la modalità di acquisizione della cittadinanza non è un cavillo burocratico: è un problema di riconoscimento culturale, politico, sociologico e antropologico. Sono più di 800 mila i bambini e ragazzi di origine straniera nati o cresciuti in Italia,che sono parte integrante della nostra società e si sono formati nelle nostre scuole. Una riforma è necessaria per rendere loro il riconoscimento adeguato di cellule vive del nostro tessuto sociale, in senso inclusivo anche dal punto di vista anagrafico. Il rischio discriminatorio, infatti, è dietro l’angolo: fra i diritti fondamentali che vengono limitati vi è prima di tutto la libertà di circolazione dentro i confini UE. In secondo luogo (ma solo in termini temporali), vi sono problemi di ammissibilità a concorsi pubblici e ordini professionali. Lo sbarramento più alto, però, resta quello dell’ammissione all’elettorato attivo e passivo, per i quali la cittadinanza italiana è un requisito fondamentale.

Tuttavia, nonostante le lungaggini à l’italienne, qualcosa (lentamente) si muove. Seppur nel 2017 la proposta legislativa sia stata bocciata in Senato, attualmente l’ipotesi di aggiornamento normativo ruoterebbe intorno al concetto di ius culturae (o ius soli temperato) che si rivolge proprio alle migliaia di bambini nati in Italia da cittadini stranieri, ivi stabilmente residenti. La proposta di modifica della Legge 91/92 è contenuta nel disegno di legge 2092, al cui articolo 1 (co. 1 lett. d) si legge: “Beneficiario è il minore straniero, che sia nato in Italia o vi abbia fatto ingresso entro il compimento del dodicesimo anno di età. Egli acquista di diritto la cittadinanza, qualora abbia frequentato regolarmente (ai sensi della normativa vigente) un percorso formativo per almeno cinque anni nel territorio nazionale (…) La cittadinanza si acquista – anche per tale nuova fattispecie – mediante dichiarazione di volontà. Essa è espressa (all’ufficiale dello stato civile del Comune di residenza del minore) da un genitore legalmente residente in Italia o da chi eserciti la responsabilità genitoriale, entro il compimento della maggiore età dell’interessato. Ai fini della presentazione della dichiarazione da parte del genitore, è dunque richiesta la sua residenza legale, la quale presuppone la regolarità del relativo soggiorno.” Una bella novità, quindi, che però è rimasta bloccata in Senato, dal quale non è mai uscita come approvata e le motivazioni, anche questa volta, sono politiche.

I flussi migratori sono un tema politico caldo e, in quanto tale, può far spostare l’asticella dei consensi, a destra o a sinistra. L’acquisizione della cittadinanza, però, non è una mera questione politica ma una vera e propria questione identitaria, per chi la vive in prima persona. Di appartenenza. Di cultura. Di legami. Ci sono migliaia di bambini (stranieri) nati in Italia che l’unico Paese che hanno mai visto è proprio l’Italia. L’unica lingua che conoscono è l’italiano. L’unica storia che conoscono è quella di Garibaldi e Cavour e mangiano ogni giorno tortellini,  polenta e arancini. È importante, dunque, che se ne torni parlare ma non è più sufficiente.

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